venerdì

Una storia noir

 
 
 
 
Tutto era nero quando prese coscienza. Non riusciva a capire dove si trovasse, circondato da tenebre. 
Provò a tastare intorno a sé piano, con circospezione, per capire meglio. Niente. Ovunque era circondato da una sostanza umida, fibrosa ma compatta. Provò a muoversi. Con molta fatica cercò di muovere il capo. Pochissimo spazio. Buio. Un odore dolciastro. E un’umidità soffocante.
Buio. Tutto era buio e senza direzioni. Senza un sopra né un sotto, senza un est né un ovest. 
Tentò di muovere il corpo, ma qualcosa lo bloccava. Quella sostanza viscosa e dolciastra, ovunque, intorno. Insisté a muoversi un poco. Comprese che contraendo e rilasciando i segmenti del corpo, allungandosi e comprimendosi riusciva ad avere la sensazione di un poco di spazio.
Forse era un’illusione, perché non c’era possibilità di movimento lì intorno. Ma provò ancora. Piano, piano, ritmicamente. Si strinse e allargò, si contrasse e allungò. Piano, piano. Un’infinitesima porzione di spazio si fece intorno a lui.
Continuò ancora, con quelle contrazioni che non si potevano chiamare movimenti. Ma a poco a poco riuscì a spostare, o forse a schiacciare, piccole porzioni di sostanza davanti a sé. Senza sapere dove lo portasse, lento ma caparbio continuò a scavarsi un cunicolo.
Fu un lavoro stremante di forza e pazienza, ma l’istinto l’aiutò. A forza di spingere, a poco a poco qualcosa accadde: davanti a lui la parete apparentemente infinita si ammorbidì, si assottigliò, si squarciò.


Emerse nel vuoto. Si spinse sempre strisciando e scivolò lungo una superficie convessa. Cosa avrebbe trovato in fondo, non sapeva. Ma si lasciò scivolare a valle. Tutto era buio, anche lì, ma c’era spazio. Un lievissimo, apparente, bagliore rossastro.
Sul fondo trovò un’altra sostanza ancor più viscosa, e ancor più appiccicosa. Calda, magmatica, cerosa. E un odore di cenere che non prometteva niente di buono. Fece un lungo giro strisciando sul fondo per evitare quel lago bollente. La superficie curva riprendeva a salire dall’altra parte. Non aveva scelta, riprese a salire anche lui. A fatica, inerpicandosi, ricadendo, rotolando, ricominciando. Quel muro liscio, viscido, non dava appigli. Insisteva, cadeva, riprovava. Saliva.
Saliva. Sentì qualcosa. Nella superficie compatta del muro si apriva una fenditura orizzontale. Seghettata, acuminata, scabrosa. Parevano denti. Un ghigno feroce. Non si soffermò a capire meglio, salì ancora, spingendosi con tutte le forze. Spingendo in alto il capo e tirandosi dietro il corpo. Arrancando. 
Incontrò un’altra fenditura, profonda. Una forma quasi triangolare. Forse un altro tunnel? E dove l’avrebbe portato? Avanzò ancora verso l’alto. Percepì più su la presenza di un’apertura più grande, circolare, ampia, da cui si sentiva passare l’aria.
Non si sentiva per niente rassicurato, ma lentamente, disperatamente salì. A quell’altezza vi erano due fori gemelli. Tondi, larghi. Vuoti. Due orbite vane e desolate. 
Buio. Buio e silenzio ovunque. Buio. Nero e buio anche in quelle orbite vuote e mute. Era tardi. Era tardi. Era tardi ormai. Quando il bruco riuscì a uscire dalla zucca, la festa di Halloween era finita.