Quando entriamo è quasi l'ora di chiusura ma la cucina è ancora aperta, per fortuna.
La sala è grande ma quasi vuota. Ci sono solo un paio di famiglie di turisti, probabilmente arabi.
Con una smorfia di scuse quello che chiameremmo maitre, se fosse il caso, ci fa sedere a un tavolinetto angusto, tra la porta e la cucina. Capisco. E' tardi, aspetta che si sgomberi la sala per pulire. Ci toccherà mangiare un primo in fretta e furia e il caffè tra le sedie rovesciate sui tavoli e il ragazzo con lo spazzolone.
Non tutto il male, però, perché i primi di pesce sono invitanti. Ci porta intanto il vino, sempre scusandosi un pochino. Guardo le famigliole numerose dei turisti. Pacchetti e borse di boutique. Quasi un saccheggio, beati loro. Elegantissimi. Tanti i bambini, tutti in scala, vestiti uguali, silenziosissimi. Le più grandi imboccano i più piccoli e li spicciano a finire.
Quello che chiameremmo maitre se fosse il caso, ogni volta che passa mi fa quel gesto di portar pazienza e di scusare sa com'è. Capisco, capisco, faremo in fretta, insomma.
Ma no, a un passaggio più vicino si abbassa (è molto alto), e mi sussurra: "Io non sono razzista sa, ma a me certa gente mi fa schifo". E di nuovo quello sguardo, ma soddisfatto di essersi spiegato.
Abbasso gli occhi sui tagliolini. Nero di seppia. Immangiabili.