venerdì

Provato per voi: un ricordo


thxtodie



Ho un ricordo nitido, pieno di dettagli, al rallentatore della sera dell’ultimo giorno che mio padre si è svegliato nel suo letto.

Ricordo una serata soleggiata dopo un temporale nel pomeriggio in una delle estati più fresche che io ricordi a Milano.

Ricordo la telefonata di mia sorella, agitata. Mia sorella è sempre agitata e la sua agitazione non faceva testo.

Ricordo la decisione su cosa fare: “Va bene, sto arrivando”, anche se l’agitazione di mia sorella non mi aveva del tutto convinto. La conoscevo già quella agitazione, mi aveva già allarmato altre volte. Di solito inutilmente.

Ricordo che abbiamo concordato, nel frattempo, di chiamare il dottor Sbardolini, il medico in pensione che abita al sesto piano.

Ricordo che sono arrivato e la situazione non mi è parsa particolarmente grave. Ma il dottor Sbardolini non era sceso e ci aveva detto di chiamare il 118, semmai.

Ricordo di avere detto a mio padre che chiamavo un ambulanza, così, per stare tranquilli.

Ricordo di avere chiamato il 118 e di avere risposto a delle domande su mio padre e sulla sua situazione che però esattamente non ricordo.

Ricordo che da quel momento passò un’eternità.

Ricordo di avere pensato che un ambulanza ci mette un sacco di tempo a uscire e che se ti stai giocando la pelle sui secondi, beh ci vuole anche un gran culo. Ma papà era tranquillo, seduto sul divano in sala, solo un po’ confuso e leggermente impastato nel parlare.

Ricordo Bianca, che non si è accorta quasi di nulla.

Ricordo che le ho fatto dare un bacio al nonno che parlava un po’ strano, ma non stava peggio di altre volte in cui lei invece si era molto spaventata.

Ricordo poi di averla consegnata in fretta e furia a Elisa, preoccupato che non si preoccupasse, che non vedesse arrivare l’ambulanza e tutta l’agitazione conseguente.

Ricordo che poi il dottor Sbardolini è sceso e ha dato un’occhiata a papà.

Ricordo che gli ha detto parole di conforto e che alla fine lo ha anche baciato. Lui così avaro di confidenze, sempre distaccato e professionale.

Ricordo che gli ha dato un appuntamento a presto, prima di andarsene.

Ricordo il vitel tonnato che mia madre aveva preparato per la cena e di avere pensato “Mi sa che stanotte la passo al pronto soccorso”. E di avere chiesto a mia madre se potevo mangiarne qualche fetta.

Ricordo di averne mangiate fette intere in piedi in cucina.

Ricordo che era buonissimo.

Ricordo che mentre mangiavo in piedi in cucina ho sentito la sirena dell’ambulanza che stava arrivando.

Ricordo il suono del citofono e mia sorella che fa per rispondere.

Ricordo mia mamma che incomprensibilmente la blocca e urla: “Fa’ rispondere il Diego”. Perché in famiglia ci chiamiamo tutti con l’articolo determinativo davanti: il Diego, la Sara, la Sonia. Ma anche l’Alberto, l’Andrea, l’Elisa e la Bea. Bianca invece è perlopiù Bianca. Come Massimo e Roberto.

Ricordo nitidamente di avere bestemmiato, ma avevo la bocca piena di squisito vitel tonnato e non credo che si sia capito esattamente che cosa ho detto. Il senso però sì: che anche se avesse risposto al citofono mia sorella non sarebbero cambiate le sorti del mondo.

Ricordo l’equipe dell’ambulanza. Quello che sembrava essere il capo era un uomo alto e magro, dall’apparenza un po’ trasandata, con i capelli lunghi e brizzolati. Era bravo, molto bravo. Parlava con mio padre, lo chiamava continuamente per nome e gli faceva domande. Gli spiegava tutto quello che stavano facendo.

Ricordo la pressione, l’ossigeno, la saturazione del sangue…

Ricordo mio padre che cercava di sdrammatizzare. Lui cercava sempre di sdrammatizzare.

Ricordo una gag sul portafoglio. Non faceva tanto ridere, ma un po’ ci consolava che papà avesse voglia di scherzare.

Ricordo che nel frattempo è arrivato don Domenico, il prete amico dei miei. Il vitel tonnato era per lui.

Ricordo che il lettighiere alto e brizzolato disse a mio padre che era meglio fare un salto in ospedale per dare una controllata.

Ricordo mia sorella che spiegava al lettighiere alto e brizzolato che papà era in cura al Policlinico e che sarebbe stato ideale se si fosse andati al Policlinico.

Ricordo che dopo una telefonata il lettighiere ci disse che ok, si poteva andare al Policlinico.

Ricordo che a quel punto ci siamo divisi i compiti. Mia sorella Sonia in ambulanza con papà. Io al seguito con la mia macchina. Mia sorella Sara a casa con la mamma. Mio nipote Alberto, in macchina con me. Don Domenico a casa con la Mamma e Sara, anzi, la Sara.

Ricordo che papà ha detto a don Domenico di dargli l’estrema unzione.

Ricordo che era una battuta e che tutti quanti abbiamo sorriso, ma neanche tanto. E don Domenico gli ha risposto con una battuta, che non poteva perché non aveva con sé i “ferri del mestiere”.

Ricordo che sono sceso per le scale per lasciare libera l’ascensore, che sono salito in macchina e partito subito verso il pronto soccorso del Policlinico.

Ricordo prima di partire di avere impostato il tipo di guida “sportiva”.

Ricordo che in macchina ho ascoltato una canzone di Neil Young che parla di una specie di paradiso terrestre e che ha esattamente la mia età.

Ricordo di avere pensato che quando papà aveva la mia età io non ero ancora nato.

Ricordo che questo mio pensiero mi ha portato a chiedermi se questo volesse sempre dire che mio papà aveva più del doppio dei miei anni. La risposta che mi sono dato era che sì, la prima affermazione “quando mio padre aveva la mia età io non ero ancora nato” implicava sempre come conseguenza necessaria la seconda e cioè che lui aveva più del doppio della mia età.

Ricordo di avere notato solo allora che mio nipote era in tenuta da calcio: aveva una maglia a righe orizzontali verdi, un paio di pantaloncini verdi e un paio di scarpe Nike gialle a 13 tacchetti.

Ricordo che trovai abbastanza inadeguato quell’abbigliamento per un pronto soccorso, a meno che tu non ti sia appena rotto un legamento crociato giocando con gli amici.

Ricordo di non avere detto una sola parola per tutto il tragitto.

Ricordo di avere corso abbastanza per via Lamarmora che era completamente sgombra e poi di essermi trovato in coda dietro al tram alla Crocetta.

Ricordo di avere svoltato a destra in via Francesco Sforza, di essere arrivato davanti al pronto soccorso del Policlinico e di avere parcheggiato sul marciapiede, chiudendo gli specchietti e mettendo le quattro frecce.

Ricordo di essere entrato al pronto soccorso, ma l’ambulanza non era ancora arrivata.

Ricordo l’arrivo dell’ambulanza.

Ricordo la porta che si apre.

Ricordo mia sorella che scende pallida.

Ricordo il suo gesto, inequivocabile.

Ricordo le sue parole: “Sta malissimo”.

Ricordo mio padre che esce dall’ambulanza, steso sulla barella, in preda a delle convulsioni terrificanti.

Ricordo il sangue che gli usciva dalla bocca.

Ricordo il panico e la disperazione che avevo dentro e quella voglia di essere dovunque tranne che lì.

Ricordo di avergli timidamente accarezzato i capelli e baciato la fronte. Io non bacio mai mio padre.

Ricordo che ero molto spaventato.

Ricordo che non sapevo cosa fare.

Ricordo che non capivo perché non stesse succedendo quello che succede nei telefilm americani quando la barella corre verso qualche emergency room spinta dagli infermieri e dai medici.

Ricordo che gli dicevo delle colossali bugie.

Ricordo di avergli detto di stare tranquillo, che tutto si sarebbe risolto, che tutto era sotto controllo. Ma non avevo idea se lui mi potesse sentire.

Ricordo che mi avvicinavo per dirgli una di queste cazzate a turno e poi mi dovevo subito allontanare perché non reggevo la scena.

Ricordo che continuavo a mettermi le mani nei capelli e che mia sorella mi ha chiesto più di una volta se mi sentissi bene.

Ricordo che alla fine lo hanno portato via e siamo rimasti soli noi lì fuori ad aspettare.

Ricordo il silenzio dell’attesa.

Ricordo le bugie via sms a mia sorella che era a casa con mia mamma.

Ricordo il linoleum giallo perfettamente sigillato del pavimento di quel corridoio. E il muro bianco dietro il quale c’era mio padre.

Poi non ricordo più niente.